Sentenze

Sentenze

Azione di risarcimento del danno derivante da colpa medica- gravi lesioni permanenti-dichiarata incapacità del testimone,nullità della prova- rigetta le domande degli attori non essendoci nesso di casualità tra i comportamenti colposi e danni subi

29 marzo 2016

Azione di risarcimento del danno derivante da colpa medica- gravi lesioni permanenti-dichiarata incapacità del testimone,nullità della prova- rigetta le domande degli attori non essendoci nesso di casualità tra i comportamenti colposi e danni subiti.

  

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale di B., sezione distaccata di Imola, in persona del dottor Sandro Pecorella ha pronunziato la seguente

SENTENZA       

nella causa iscritta al n. 20341/2000 di R.G. degli affari contenziosi civili, posta in decisione all’udienza del 4 aprile 2005 in seguito a discussione orale svolta dai procuratori delle parti, promossa da M. M. in persona del tutore S. B. (aut. del Giudice Tutelare di B. del 24 marzo 2005), S. B. in proprio, M. L., M. D.,  rappresentati e difesi, come da procura speciale rilasciata con scrittura privata autenticata per ministero del notaio I. T. da I. del 20 marzo 2001 (Rep. *****), dall’avv. G. S. ed elettivamente domiciliati presso il di lui studio in B., via F. n. 3.

Attori

contro 

P. P. rappresentato e difeso per mandato in margine alla comparsa di costituzione e risposta con richiesta di chiamata in causa di terzo dall’avv. A. P. ed elettivamente domiciliato in I. presso lo studio legale G., via C. 82.

Convenuto

contro

A. U. S. S. di I. in persona del Direttore Generale A. Z. (Del. N. *** del 13 giugno 2000 esecutiva il 14 giugno 2000), rappresentata e difesa per mandato in calce alla copia notificata dell’atto di citazione dall’avv. G. G. ed elettivamente domiciliata presso lo studio di questi in I., via A. 38.

Convenuto

con la chiamata in causa di

A. Le A. d’I. S.p.A. in persona del procuratore speciale avv. M. C. (procura speciale redatta per atto pubblico del notaio T. S. M. da R. – Rep. ******, Racc. *****), rappresentata e difesa per mandato in calce all’atto di citazione di terzo dall’avv. G. G. ed elettivamente domiciliata presso il suo studio in I., via A. 38.

Terza chiamata in causa

avente per oggetto: condanna al risarcimento del danno derivante da colpa medica.

Conclusioni per gli attori (foglio allegato al verbale di udienza del 10 gennaio 2005):

Voglia l’Ill.mo sig. Giudice adito, contrariis reiectis, così giudicare:

IN VIA PRELIMINARE

previa revoca in parte qua dell’ordinanza del G.I. in data 15 ottobre 2002,

dichiararsi l’incapacità a deporre ex art. 246 c.p.c. dei testi dott. N. O., dott. A. R., prof. S. S. e dott. C. N. e per l’effetto

dichiarare la conseguente inutilizzabilità delle testimonianze rese dagli stessi alle udienze del 15 ottobre 2002 e del 14 novembre 2002,

NEL MERITO

-              Dichiarare la responsabilità dei convenuti P. e AUSL di I. per le gravissime lesioni riportate dal sig. M. M. in seguito all’intervento chirurgico per cui è causa e conseguentemente

-              Condannare  il dott. P. P., la AUSL di I. e A., le A. d’I. S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, in solido tra loro, a pagare nei confronti degli attori a titolo di risarcimento dei danni subiti per il fatto di cui è causa le seguenti somme:

-              quanto a M. M.: € 219.015,72 (già £. 242.067.000) a titolo di danno biologico; € 219.015,72 (già £ 242.067.000) a titolo di danno morale; € 624.571,33 (già £. 1.209.320.000) a titolo di danno patrimoniale; € 215.210,92 (già £. 416.700.000) a titolo di spese mediche e di assistenza e così complessivamente la somma di €. 1.277.813,70 (già £. 2.474.154.000) o quella diversa somma che risulterà di giustizia;

-              quanto a B. S. € 154,939,47 (già £. 300.000.000) a titolo di danno morale ed esistenziale ; € 51646,49 (già £. 100.000.000) a titolo di danno biologico e così complessivamente, la somma di € 206.585,96 (£. 400.000.000) o quella diversa somma che risulterà di giustizia;

-              quanto a M. L. € 154.939,47 (già £. 300.000.000) a titolo di danno morale ed esistenziale; € 25823,25 (già £. 50.000.000) a titolo di danno biologico, e così complessivamente, la somma di € 180.762,72 (£. 350.000.000) o quella diversa somma che risulterà di giustizia;

-              quanto a M. D. € 129.116,23 (già £. 250.000.000) a titolo di danno morale ed esistenziale; € 25.823,25 (già £. 50.000.000) a titolo di danno biologico, e così complessivamente, la somma di € 154.939,48 (£. 300.000.000) o quella diversa somma che risulterà di giustizia;

-              quanto a B. S., M. L. e M. D., in solido fra loro € 203.590,46 (già £.394.200.000) a titolo di danno patrimoniale.

Condannare i convenuti tutti in solido fra loro al pagamento nei confronti degli attori della rivalutazione monetaria e degli interessi sulla somma rivalutata al saldo.

In ogni caso con vittoria di spese, competenze ed onorari di giudizio.

Conclusioni per il convenuto P. P. (foglio allegato al verbale di udienza del 10 gennaio 2005):

Piaccia all’Ill.mo sig. Giudice Unico del Tribunale di Bologna, Sezione di Imola, contrariis reiectis,

a)      respingere le domande attore e in quanto infondate in fatto ed in diritto;

b)      nel denegato caso di accoglimento totale e/o parziale delle domande attore e, dichiarare tenuta, e per tale effetto condannare, A. – Le A. d’I. S.p.A., a manlevare il dott. P. P. da ogni conseguenza e condanna;

c)      respingere ogni domanda nuova proposta in corso di causa dagli attori.

Conclusioni per AUSL di I. e A. (verbale di udienza del 10 gennaio 2005):

contesta quanto ex adverso dedotto dagli attori, non accetta il contraddittorio su domande e deduzioni nuove e precisa le conclusioni per AUSL di I. e A. Ass.ni come da comparsa di costituzione e risposta:

Ogni contraria istanza ed eccezione reietta, piaccia all’On.le Tribunale adito disattendere in toto le domande attore e, siccome infondate in fatto e in diritto.

In subordine, ridurre le stesse secondo quanto risulterà effettivamente provato e di giustizia in corso di causa contenendo, in ogni caso, l’obbligazione del terzo chiamato in causa nel limite del massimale assicurato.

Con vittoria di spese competenze ed onorari.

Svolgimento del processo

Con atto di citazione redatto per ministero dell’avv. G. M., all’epoca procuratrice degli attori per mandato in calce all’atto di citazione, i sigg.ri M. M., S. B. in proprio e i figli M. L. e M. D., citavano in giudizio P. P. e l’A. U. S. S. di I., per sentirli condannare al risarcimento del danno subito per le gravi lesioni permanenti rimaste al sig. M. M. in seguito ad intervento chirurgico del 18 giugno 1998 operato dal dott. P. e dalla sua equipe presso il S. nosocomio.

L’atto di citazione veniva notificato il 10 aprile 2000 all’AUSL di I. presso la sede di via A. 2 nelle mani dell’impiegata presso la segreteria della direzione sig.ra Q. F. e il 7 aprile 2000 al dott. P. P. in I., via G. 20, nelle mani del figlio convivente avv. A. P. che come abbiamo visto ne ha poi assunto il patrocinio.

Nell’atto di citazione gli attori hanno esposto che il sig. M. M. si era rivolto all’Ospedale di I. per una claudicatio intermittens con intervallo libero di 300 metri e turbe dell’erezione, che in base a precedenti esami (eco doppler degli arti inferiori e ecografia aortica) è stata qualificata quale “sindrome di Leriche”.

Da esami del 20 marzo 1998 veniva rilevato oltre il problema ai distretti addominali già visti anche una lieve stenosi non significativa del distretto sopra aortico. Dopo di ciò è stata effettuata una pan angiografia e una consulenza chirurgica vascolare che hanno evidenziato - secondo gli attori un interesse chirurgico limitato al solo distretto aorto iliaco, poiché il pure presente problema carotideo era asintomatico.

Nonostante ciò il sig. M. è stato sottoposto, in data 18 giugno 1998 a un intervento chirurgico di “tromboendoarterioctomia” (TEA) carotidea, nel corso del quale sono subentrate complicazioni per le quali il chirurgo, dott. P., ha preferito sostituire il tratto di vaso interessato mediante un innesto di materiale sintetico del calibro di 6 mm. Inoltre la sutura dell’arteria è risultata difettosa in un primo momento per cui è stato necessario rifarla con conseguente dilatazione del tempo operatorio che ha raggiunto circa le quattro ore.

Il sig. M., alle ore 12,50, terminato l’intervento, si è risvegliato ed è stato portato nel reparto di terapia intensiva pur presentando una lieve ipostenia all’arto superiore destro.

Alle ore 17,30 è emersa una emiplegia destra massiva con afasia e deviazione oculare. L’eco doppler effettuata per questo motivo ha confermato un quadro di trombosi completa dell’innesto, con necessità di intervenire per disostruire l’arteria.

L’intervento è iniziato alle ore 19,15 e si è concluso alle ore 20,15 con esito infausto poiché il chirurgo ha ritenuto di optare per la “legatura del moncone vasale distale” per prevenire ulteriori embolie, senza che potesse venire ripristinato il circolo sanguigno nella carotide. Infatti la TAC cerebrale effettuata il giorno successivo evidenziava ipodensità capsulo talamica sinistra e più estesa ipodensità fronto paretiale omolaterale riferibile ad infarto nel territorio della carotide interna sinistra.

Da quel giorno il sig. M. M. presenta emiplagia destra ed afasia globale da ischemia cerebrale post intervento, produzione verbale composta solo da fonemi e comprensione orale gravemente compromessa. È assolutamente incapace di provvedere a se stesso, è stato interdetto dal Tribunale di B., con nomina del tutore nella persona della moglie Passatelli B.. Inoltre è stato necessario provvedere con assistenza domiciliare specializzata retribuita mensilmente per un importo di £. 1.800.000.

A causa della grave compromissione delle sue facoltà il sig. M. ha dovuto rinunciare a svolgere l’attività di commerciante che prima svolgeva quale contitolare insieme alla moglie della ditta B. S.. Ha dovuto inoltre rinunciare alla carica di amministratore della M. in S. S.r.l. e alla carica di Consigliere della U. S. S.p.A.  con conseguente perdita del reddito relativo.

Hanno evidenziato gli attori l’inesistenza di un valido consenso all’operazione, l’imprudenza e l’azzardo di effettuare questo intervento perché non necessario e non preceduto da esami specifici circa l’esclusione di rischi di emboli e veniva inoltre definito come inadeguato il tipo d’intervento e con particolare riferimento alla scelta del materiale con quale sostituire l’arteria danneggiata del paziente, nonché l’assenza di controllo post operatorio. È stato inoltre stigmatizzato il grave ritardo con il quale si è intervenuto e anche la scelta di limitare l’intervento alla legatura del moncone. Hanno chiesto il risarcimento dei danni con conclusioni che si riportano integralmente, essendo sorta discussione sulla ammissibilità delle successive conclusioni presentate dagli attori e essendo assai rilevante l’esatta individuazione delle domande poste all’esito dell’istruzione probatoria che, come vedremo, non da risultati certi circa la guarigione del sig. M. nel caso fossero stati effettuate le corrette operazioni mediche individuate dai C.T.U.

Chiedevano pertanto gli attori nell’atto di citazione che piacesse al giudice adito, “dichiarare la convenuta AUSL di I. in persona del suo legale rappresentante ed il convenuto dott. P. P. responsabili delle gravissime lesioni e dell’invalidità occorsa al sig. M. M., ciascuno per i rispettivi titoli e conseguentemente, condannare i convenuti in solido tra loro, al risarcimento dei danni tutti occorsi al M. M. ed agli odierni attori in proprio e quindi precisamente:

quando a M. M., condannare i convenuti a corrispondere al M. M. la somma di £ 2.000.000.000 o quella diversa somma che sarà ritenuta di giustizia in corso di causa, previa CTU medico legale per invalidità permanente specifica 100%, danno biologico 80/100% e danno morale oltre all’invalidità temporanea;

quanto a S. B. in proprio, M. L. e M. D., condannare i convenuti a corrispondere la somma di £. 400.000.000 a favore di ciascuno di essi a titolo di risarcimento dei danni biologico morale e materiale ai medesimi occorsi e per rimborso delle spese fin qui sostenute e da sostenersi o in quella maggiore o minore somma che risulterà provata e di giustizia in corso di causa. Oltre interessi e rivalutazione monetaria fino al saldo.

Con vittoria di spese competenze ed onorari”.

Si è costituito tempestivamente, il 16 giugno 2000, P. P., respingendo gli addebiti a lui mossi. Ha evidenziato in particolare che la pan angiografia esibita dal sig. M. nel maggio 1998 evidenziava una vasculopatia generalizzata con compromissione importante dell’aorta terminale e dell’asse iliaco sinistro, placca ulcerata e stenosi ostiale della carotide interna sinistra, furto della succlavia sinistra. Ha ribadito pertanto che, essendo il sig. M. candidato ad un intervento di chirurgia maggiore nel distretto aorto iliaco, risultava prioritario un intervento di TEA carotidea sinistra, seguito, a distanza di due o tre mesi, da bypass aorto iliaco o femorale sinistro. Ritiene infatti la Difesa del dott. P. che questo secondo intervento avrebbe potuto aumentare gravemente il rischio già esistente a carico del distretto carotideo sinistro non preventivamente bonificato. Inoltre Ha rigettato la Difesa del P. le considerazioni attore e circa la mancanza di consenso informato da parte del sig. M. poiché si resero conto il dott. P. e il suo aiuto dott. O., che partecipò al colloquio, che il sig. M. aveva una non comune proprietà di linguaggio tecnico come se avesse già consultato altri specialisti. Gli fu anche consigliato di rivolgersi per un consulto presso la Clinica di chirurgia vascolare dell’Università di B. o presso un’altra U. di chirurgia vascolare e dopo una decina di giorni tornò avendo deciso di affidarsi alla divisione chirurgica dell’Ospedale di I.. Dopo di ciò seguì un colloquio preoperatorio dove il dott. P. si dilungò più del solito a spiegare la procedura chirurgica e i rischi di complicanze maggiori fino allo “stroke” e al decesso che erano possibili, secondo le statistiche, nella misura del 2 – 3 %. Fu chiaramente spiegato la necessità nel suo caso di questo intervento per la presenza di una ulcerazione della placca con possibilità di tromboembolie nel circolo cerebrale e della necessità di fare precedere questo intervento a quello alla regione aorto iliaca. Il dott. P. dovette anche illustrare con uno schizzo la procedura della TEA con l’applicazione di un “patch”, l’uso eventuale dello “shunt” e le altre tecniche a disposizioni quali l’eversione e il bypass in vena autologa o in materiale protesico. Seguì poi un altro colloquio con l’aiuto dott. O. che dovette ripetere tutto quello che gli aveva già spiegato il dott. P.. Infine la dichiarazione scritta di consenso informato, redatta su modulo in parte precompilato fu raccolta dal medico di reparto in quei giorni, il dott. N..

In sede operatoria, riferisce il P., fu riscontrata una maggiore gravità del grado di stenosi e della morfologia della placca e fu necessario confezionare un bypass. In materiale sintetico PTFE n. 6.

Il paziente, dopo l’operazione, si risvegliò normalmente e non aveva nessun segno di deficit.

Fu solo verso le 17,30 che comparve improvvisamente una grave emiplagia destra e il dott. P. venne convocato d’urgenza. Eseguito un ecodoppler carotideo i parenti furono informati della necessità di rioperare e così fu fatto. Ritiene il convenuto che il grave problema insorto alle ore 17,30 non potesse essere fatto risalire ad alcuna sua responsabilità e pertanto ritiene di essere esente da responsabilità. Ritiene che anche il reintervento fu tempestivo, considerato il tempo per svolgere gli esami necessari.

Nella medesima sede di comparsa il dott. P. svolgeva l’apposita istanza ex art. 269 c.p.c. di spostamento dell’udienza essendo sua intenzione chiamare in giudizio l’A. presso la quale era assicurato per la responsabilità professionale.

Il G.I. pronunciava il decreto di cui all’art. 269 comma 2° c.p.c., e pertanto la Difesa del dott. P. spiccava apposito atto di citazione di terzo che veniva notificato in data 11 luglio 2000.

In data 16 novembre 2000, intempestivamente (l’udienza era fissata per il 17 novembre e l’AUSL era stata citata per l’udienza originariamente fissata dagli attori), si sono costituiti, con un'unica comparsa di costituzione e risposta l’AUSL di I. e la terza chiamata in causa A.. Questi si sono riportati sostanzialmente alle considerazioni di merito già svolte dalla Difesa del dott. P., aggiungendo solamente, per quanto riguarda l’A., che il massimale assicurato era di £. 4.000.000.000 e chiedendo, che nel caso di sua condanna la somma dovuta a titolo di manleva da parte dell’assicurazione fosse limitata a questa somma.

In sede di udienza ex art. 183 c.p.c. si costituiva per gli attori, al posto dell’avv. M., l’avv. G. S. che si riportava alle precedenti Difese e allegava consulenza tecnica di parte redatta dai prof. G.  B. ed E. V..

Le parti non comparivano per l’interrogatorio libero e il tentativo di conciliazione.

Ex art. 183 comma 5° c.p.c., venivano chiesti i termini da parte degli attori per precisare e modificare le domande già proposte e pertanto, con memoria  depositata il 23 luglio 2001 e perciò nel termine del 27 luglio 2001. In questa memoria la Difesa M. dettagliava specificamente le motivazioni giuridiche della richiesta di risarcimento del danno con particolare riferimento alla natura di responsabilità extracontrattuale nei confronti dei congiunti del sig. M. e concludeva nel seguente modo:

“condannare il dott. P. P. e la AUSL di I., in solido fra loro, a pagare nei confronti degli attori a titolo di risarcimento dei danni subiti per il fatto di cui è causa la somma di £. 3.262.554.000, quanto a M. M. o quella diversa somma che risulterà di giustizia in corso di causa, e £. 1.891.300.000 quanto a B. S.,M. L. e M. D. o quella diversa somma che risulterà di giustizia in corso di causa”.

Su queste richieste le Difese dei convenuti e della chiamata in causa evidenziavano l’inammissibilità sia dell’aumento delle pretese creditorie che l’introduzione della voce di danno relativa al danno patrimoniale, a loro giudizio non introdotta nell’atto di citazione.

Successivamente venivano concessi i termini di cui all’art. 184 c.p.c. e le parti depositavano le relative memorie.

Il processo veniva istruito con l’interrogatorio formale degli attori e del convenuto P. P., con prove testimoniali e con cospicua produzione documentale tra la quale la cartella clinica relativa ai giorni del fatto  e alla successiva degenza del sig. M., articoli relativi alle corrette pratiche medico chirurgiche da osservare in questi casi. La Difesa P. produceva anch’essa consulenza tecnica di parte redatta dal prof. M. D’A..

La Difesa attrice sollevava eccezione d’incompatibilità ex 246 c.p.c. con l’ufficio di testimone in relazione alle persone dei dott. O., R., S. e N. avendo partecipato all’intervento.

Tale eccezione è stata sollevata per ognuno di questi testi e ribadita in sede di precisazione delle conclusioni.

Dopo di ciò veniva disposta C.T.U. affidata a un collegio peritale composto dai Prof. P. R., specialista in Medicina Legale e delle A.e e dal Prof. C. P., Ordinario di Chirurgia Vascolare.

Esaurita l’istruzione, sono state precisate le conclusioni e disposto lo scambio delle comparse conclusionali. Su richiesta della Difesa attrice, è stata fissata udienza di discussione ex art. 281 quinquies c.p.c. comma 2°.

Depositate tempestivamente da tutte le parti le comparse conclusionali, previo deposito da parte attrice dell’autorizzazione del Giudice Tutelare, la causa veniva quindi ampiamente discussa all’udienza del 4 aprile 2005 e quindi trattenuta in decisione.

Motivi della decisione

Questioni preliminari.

a) Qualità di tutore nella quale agisce S. B.. Preliminarmente, si deve rilevare che in comparsa conclusionale i convenuti e la chiamata in causa hanno accennato al fatto che la sig.ra  S. non avrebbe spiegato nella procura in calce all’atto di citazione che agiva anche nella veste di tutore di M. M..

In proposito si deve osservare che la qualità di tutore di M. M. in S. B. è, in compenso, indicata chiaramente nell’atto di citazione essendo il riferimento a tale inesistente M. B. contenuto in epigrafe di questo atto un errore materiale che non inficia la sua comprensione, come si capisce dal fatto che la difesa dei convenuti e della chiamata in causa in nulla è stato assolutamente adeguata.

In considerazione di ciò, la qualità di tutore con la quale agisce la sig.ra S. è pertanto evidente, anche se tale qualità non è espressamente menzionata nella procura. Infatti, è principio ampiamente riconosciuto in giurisprudenza che la mancata indicazione della qualità con la quale si agisce nella procura non renda nullo l’atto quando la qualità con cui agisce chi la procura conferisce è manifestata nell’atto a cui la procura è collegata.

Il principio è stato più volte espresso in tema di rappresentanza processuale delle persone giuridiche ma si trova anche un precedente, sia pure vetusto, per quanto riguarda la rappresentanza processuale dell’incapace come è in questo caso (cfr. Cass. civ. Sez. 2, Sentenza n. 591 del 21/02/1968 Rv. 331717).

Quanto alla necessità di autorizzazione per il tutore al fine di potere agire, si rileva che essa è necessaria stante la lettura dell’art. 374 n. 5 c.c., atteso che si agisce anche per responsabilità contrattuale come meglio vedremo in seguito e non per risarcimento danni da fatto illecito.

Comunque il fatto di avere acquisito l’autorizzazione del Giudice Tutelare prima della discussione della causa sana per gli effetti di cui agli artt. 75 e 182 c.p.c. ogni difetto di rappresentanza del tutore.

b) Ammissibilità delle conclusioni spiegate in sede di precisazione è modifica delle conclusioni con memoria ex art. 183 comma 5° c.p.c. e in sede di precisazione delle conclusioni.

Sul punto, con particolare riferimento alla vicenda del risarcimento danni patrimoniali nelle conclusioni sopra riportate contenute nell’atto di citazione, per quanto riguarda il sig. M. M. è stato chiesto in un primo momento il risarcimento di tutti i danni da lui subiti e poco dopo è stato specificato che il risarcimento dei danni doveva riguardare “l’invalidità permanente specifica 100%, danno biologico 80/100% e danno morale oltre all’invalidità temporanea”.

Si deve anche aggiungere che già nell’atto di citazione, redatto con la tecnica dell’indicazione di domande da porre in sede d’interrogatorio libero, formale ed esame dei testimoni, erano stati sviluppati specifici capitoli sull’attività lavorativa del sig. M. e sulla perdita del reddito (cap. 15 a pag. 4 della citazione). Questo appare già sufficiente per interpretare correttamente l’atto nel senso che il danno patrimoniale richiesto era già compreso nell’originaria richiesta di cui all’atto di citazione e precisamente sotto la voce da invalidità permanente specifica, in quanto diverso dal danno biologico (qui si sarebbe parlato di invalidità permanente generica con riferimento al lavoro di lavoro diventato maggiormente usurante), che è chiesto con apposita voce.

Similmente si deve dire per il danno da mancato apporto economico lamentato da S. B. in proprio e dai figli del sig. M.. Nelle conclusioni sopra riportate si rileva che fin dall’inizio è stato chiesto il risarcimento del danno materiale da essi subito e anche in questo caso vi è un apposito capitolo in narrativa (cap. 16 a pag. 4 della citazione) dove il fatto del mancato apporto economico è menzionato. Ciò è senz’altro sufficiente per interpretare la voce danno materiale chiesta in citazione nel senso che è comprensiva anche del danno da mancato apporto economico.

A chiudere l’argomento circa l’ammissibilità delle domande contenute nella memoria di cui all’art. 183 comma 5° c.p.c. si riporta la seguente massima relativa al caso inverso, dove essendo stato chiesto il danno patrimoniale, il danno biologico era stato specificato successivamente: In tema di risarcimento dei danni da responsabilità civile, la domanda di risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non patrimoniali, proposta dal danneggiato nei confronti del soggetto responsabile, comprende necessariamente anche la richiesta volta al risarcimento del danno biologico anche se non dovesse contenere alcuna precisazione in tal senso, in quanto la domanda, per la sua onnicomprensività, esprime la volontà di riferirsi ad ogni possibile voce di danno.”  (Cass. civ. Sez. 3, Sentenza n. 2869 del 26/02/2003 Rv. 560713). Dunque sulla base di questa giurisprudenza si ritiene che basti chiedere il risarcimento del danno nella sua integrità per comprendere tutte le voci di danno a meno che sin dall’inizio, nell’atto introduttivo le voci di danno siano state limitate, cosa che nel caso presente non è accaduta avendo gli attori chiesto il risarcimento di tutti i danni. In ogni caso sul punto si può richiamare anche la giurisprudenza indicata da parti attrici nel foglio allegato a verbale di udienza del 4 ottobre 2001 (in particolare Cass. Civ. 6 agosto 1997 n. 7275 circa la considerazione l’ampliamento del solo petitum mediato che comporta variazione nella sola estensione del petitum immediato, ferma restandone l’identità e l’individualità ontologica).

Per quanto riguarda la diversa quantificazione del danno, che è sensibilmente maggiore nelle ultime conclusioni prese, si deve dire che fin dall’origine nell’atto di citazione era stato chiesto il pagamento di una determinata somma o delle diversa maggiore o minore, somma che risulterà provata o comunque di giustizia. Ciò rende di per se ammissibile una diversa richiesta attrice in ordine all’aspetto quantitativo del danno, che sarebbe comunque stata ugualmente ammissibile anche in mancanza di espressa riserva se l’ampliamento non comportasse imputazione dei fatti giuridici posti a fondamento dell’eccezione (cfr. cassazione menzionata nel predetto foglio allegato a verbale di udienza del 4 ottobre 2001 con particolare riferimento a Cass. civ. 4 ottobre 1994 n. 8043).

Per quanto riguarda le conclusioni svolte all’udienza di precisazione delle conclusioni si osserva che le stesse sono comprese nei limiti precedentemente svolti, sia per quanto riguarda la quantificazione che per quanto riguarda la tipologia e pertanto la dichiarazione di non accettare il contraddittorio su domande nuove formulata dalle controparti (svolta evidentemente per tuziorismo) non ha pregio, tranne che per una questione, correttamente segnalata dalla  Difesa dell’A. e cioè il fatto che in questa sede gli attori hanno esteso la domanda di condanna in solido anche nei confronti di A.. Sul punto si deve rilevare come sia vero quanto sostenuto da quella Difesa la chiamata del dott. P. nei confronti della A. è stata effettuata a garanzia e dunque i due rapporti sono chiaramente autonomi. Dunque in questo caso (cfr. Cass. civ. sez. I del 28 marzo 2003 n. 4740) la domanda non si estende automaticamente al terzo chiamato in garanzia. L’estensione della domanda al terzo si ha solo nel caso in cui il terzo viene chiamato in causa dal convenuto per ottenere la decL.toria della sua esclusiva responsabilità e conseguentemente la liberazione dalla pretesa dell’attore. In questo caso la domanda attore si estende così automaticamente che il terzo risponderà nei confronti dell’attore anche se questo non estenda la domanda verso il terzo chiamato. Ma non è questo il caso, dove l’A. non può certo essere chiamata a ritenersi responsabile del fatto, ma solo, in virtù del contratto di assicurazione, a tenere indenne il dott. P. da eventuali conseguenze economiche. Da questo punto di vista questa domanda è nuova è dunque inammissibile. Sarebbe anche infondata in diritto poiché l’assicurazione risponde solo nei confronti degli assicurati, non ricorrendo un ipotesi di assicurazione obbligatoria come quella per la responsabilità verso i terzi per la circolazione stradale, ma la questione dell’inammissibilità deve essere esaminata logicamente prima.

c) L’ammissibilità delle testimonianze dei dott. O., R., S. e N..

Per quanto riguarda la testimonianza, l’art. 246 c.p.c. indica l’incompatibilità dell’ufficio di testimone in capo a chi abbia un interesse che potrebbe legittimare la sua partecipazione nel processo. L’interesse giuridicamente rilevante è pertanto quello di cui all’art. 100 c.p.c. che trova il suo riconoscimento minimo nella possibilità rilasciata dall’art. 105 comma 2° c.p.c. di potere intervenire per sostenere le ragioni di alcuna delle parti, quando vi ha un proprio interesse. Si esclude pertanto che sia incapace di testimoniare chiunque porti un interesse di mero fatto e per potersi procedere all’esclusione dall’ufficio di testimone occorre anche che il terzo potenziale testimone debba avere un interesse personale, concreto ed attuale. In giurisprudenza è anche sottolineato come neppure il verificarsi di vicende successive quali la rinuncia o la prescrizione del diritto che il terzo potrebbe vantare nel processo, rende ammissibili le testimonianze di chi comunque abbia interesse alla causa.

Preso atto di ciò si deve dunque dire che non pare esservi dubbio sull’incapacità a testimoniare dei dott. O., R. e S. poiché tutti costoro hanno partecipato all’intervento e pertanto hanno un interesse giuridicamente protetto, che legittimerebbe un loro intervento nella causa anche a titolo principale poiché potrebbero essere chiamati anch’essi a rispondere dell’esito infausto e potrebbero fin anche esperire azione di accertamento negativo (vedi da ultimo Cass. civ. Sez. 3, Sentenza n. 15197 del 06/08/2004 secondo la quale “L'interesse che dà luogo ad incapacità a testimoniare a norma dell'art. 246 cod. proc. civ. è quello giuridico, personale, concreto, comportante la legittimazione a proporre l'azione ovvero ad intervenire in un giudizio”).

Non così si deve dire del dott. N. che si è limitato a raccogliere il consenso del sig. M. e che ha riferito solo su questo, pur essendo contestato che il consenso fosse stato validamente espresso. Ma tale vicenda, rimasta sul terreno anche se oggettivamente poco coltivata nel corso del processo dopo che era stata espressa in citazione, è solo un corollario dell’affermazione, svolta invece con forza dagli attori, circa l’inutilità dell’intervento e pertanto la testimonianza del dott. N., che non può solo per questo motivo essere coinvolto nel processo a qualsiasi titolo, è senz’altro ammissibile tenuto presente che la norma in esame deve essere interpretata restrittivamente per mantenerne la compatibilità rispetto al diritto di agire in giudizio di cui all’art. 24 Cost.

Per quanto riguarda la tempestività dell’eccezione e l’immanenza dell’eccezione si rileva che il Difensore avv. S. l’ha sollevata prima della testimonianza di ciascuno dei testi indicati e l’ha anche ribadita al momento della precisazione delle conclusione come, peraltro, risulta dalle conclusione in epigrafe precisate.

Dunque si deve verificare se tali comportamenti siano da ritenere adeguati rispetto al regime di rilevazione delle nullità previsto dalla legge.

In proposito si osserva che l’incapacità di cui si tratta e la conseguente nullità della deposizione conseguente può essere rilevata solo ad istanza di parte, non essendo prevista dalla legge la possibilità di pronunciarla d’ufficio (art.157 comma 1° c.p.c.). Ciò è talmente scontato che non pare di doversi dilungare sul punto.

Il punto controverso è quello dell’avvenuto rispetto della procedura indicata dall’art. 157 comma 2° c.p.c. in ordine al rilievo della nullità riservata alle parti. Infatti qui è prescritto che la nullità deve essere sollevata nella prima istanza o difesa successivi  al compimento dell’atto nullo o alla notizia di esso. Dalla lettura di questa norma si trae spunto per separare l’assunzione della testimonianza dell’incapace dalla nullità della prova così eventualmente formata nonostante l’eccepita incapacità.

In proposito si deve osservare che le testimonianze di incapaci sono più di una e per ognuna la Difesa attrice ha ribadito pedissequamente l’eccezione pur sapendo che sarebbe stata rigettata. L’eccezione d’incapacità è stata sollevata poi anche in sede di precisazione delle conclusioni. Ritiene il giudice che il pur esistente principio sopra visto vada interpretato anche alla luce del principio di libertà di forme degli atti di cui all’art. 121 c.p.c. Per questo principio l’importante, salvo che non esista una forma codificata è quello del raggiungimento dello scopo. In proposito si potrebbe dire che il fatto che la legge prevede appunto la rilevazione della nullità nella prima difesa successiva è una forma vincolata, ma in proposito si deve ribadire come la eccezione sia stata ribadita più volte nel corso dell’udienza alla quale sono stati sentiti i testi sopra indicati. Quello che la giurisprudenza citata dalla Difesa dei convenuti sanziona è la mancanza di chiara indicazione circa il rilievo da parte dell’interessato della volontà di dare corso all’eccezione di nullità e pertanto ritiene questo giudice che nel caso concreto il disposto di cui all’art. 157 comma 2° c.p.c. sia stato sostanzialmente rispettato, avendo dimostrato parti attrici, fin dal corso della udienza nel quale la nullità era stata compiuta, di non prestare acquiescenza al compimento di questa nullità Si rileva peraltro che la sentenza di Cass. civ. Sez. 2, n. 14587 del 30/07/2004 (Rv. 575144) Fiaschetti contro Pistolesi ed altro, citata dalla Difesa AUSL – A., stigmatizza in particolare il fatto che l’eccezione d’incapacità a testimoniare e la conseguente nullità non sia stata sollevata in appello, come dimostrava nel caso concreto il fatto che tale eccezione non fosse stata riportata nelle conclusioni scritte nella sentenza di appello.

Ritiene lo scrivente che ritenere la parte acquiescente alla commessa nullità con la reiterazione della eccezione che si può osservare nel verbale di udienza del 15 ottobre 2002 equivalga (tanto per utilizzare un paragone udito all’udienza di discussione) al perdere la causa all’epoca del diritto romano arcaico per avere agito de arboribus succisis, mentre le XII tavole parlavano di vitibus succisis.

Si deve, infine, aggiungere che effettivamente il comportamento dei detti testi di cui è stata dichiarata l’incapacità a testimoniare è assolutamente in linea con la reale sussistenza nel caso concreto dei problemi che l’applicazione dell’art. 246 c.p.c. tende ad evitare. Ciò è particolarmente evidente nella testimonianza del teste N. O. (verbale del 15 ottobre 2002 pag. 6 e ss.): il teste tende a prendere le distanze dalla conduzione dell’intervento poiché, contrariamente alle descrizioni del diario delle operazioni, che parla di tre operatori, riferisce che in realtà l’unico operatore era il dott. P., mentre lui e il dott. R. nel primo intervento e il dott. S. nel secondo intervento hanno svolto una attività di “semplice” assistenza. Riferisce la diversa dizione contenuta nel diario dell’operazione a un errore di impostazione del computer all’epoca dell’intervento e riferisce che attualmente in computer parlerebbe di “primo operatore” e di “collaboratori”. Non si vuole dire che quanto riferisce il dott. N. non sia vero e occorre rilevare come tali chiarimenti siano stati da lui forniti proprio in seguito a domande rivoltegli dal giudice per verificare la sua posizione, ma è comunque significativo che il fatto che la posizione di queste risposte, oltre ad accreditare la tesi di potere assumere la veste di teste, sia “difensiva” nel senso che allontana da se il sospetto della responsabilità.

In ogni modo si osserva che le deposizioni di questi testi non hanno influito molto sulle valutazioni tecniche effettuate nell’ambito della C.T.U. che ha tenuto conto della documentazione clinica e delle tesi contrapposte dei consulenti di parte.

La natura della responsabilità per fatti inerenti l’esercizio dell’arte medico – chirurgica. La ripartizione dell’onere della prova con particolare riferimento all’onere della prova in punto di nesso di causalità. Inquadramento delle ipotesi incerte sulla sussistenza del nesso di causalità nella fattispecie della perdita di chances.

In proposito si deve osservare che non vi è dubbio che la responsabilità sussistente tra il medico e la struttura nel quale lo stesso opera (in questo caso l’A. di I.) nei confronti del paziente è di natura contrattuale, in quanto derivante da contratto intervenuto tra il paziente e il medico convenuto per ottenere derivanti operazioni sanitarie. Infatti all’operatore sanitario non è richiesta un semplice “naeminem laedere” come sarebbe nel caso si debba riconoscere la sussistenza di una responsabilità extra contrattuale, ma anche l’attivarsi per un fare positivo che si estrinseca nell’esprimere la perizia al fine di curare e guarire attestata dal fatto di appartenere ad una professione protetta per l’esercizio della quale lo Stato richiede l’acquisizione di una speciale abilitazione.

Quanto all’oggetto della prestazione essa non può certamente essere il risultato, ma comprende l’adozione della massima diligenza in base al criterio previsto dall’art. 1176 comma 2° c.c., trattandosi di obbligazioni inerenti l’esercizio dell’attività professionale (cfr. Cass. civ. sez. 3 del 13 gennaio 2005 n. 583). Il punto sintetico di arrivo di tutta la l’elaborazione in materia di responsabilità professionale in generale e medica in particolare è il seguente: in tema di obbligazioni relative all’esercizio di un’attività professionale l’inadempimento del professionista alla propria obbligazione non può essere desunto ipso facto, dal mancato raggiungimento del risultato avuto di mira dal cliente, ma deve essere valutato alla stregua dei doveri inerenti allo svolgimento dell’attività professionale ed, in particolare, del dovere della diligenza, per il quale trova applicazione, in luogo del tradizionale criterio della diligenza del buon padre di famiglia, il parametro della diligenza professionale fissato dall’art. 1176, secondo comma cod. civ., parametro da commisurarsi alla natura dell’attività esercitata.

Ne consegue che la responsabilità del medico per i danni causati al paziente postula la violazione dei doveri inerenti allo svolgimento della professione, tra i quali quello della diligenza (compresa in questa anche la perizia da intendersi come conoscenza ed attuazione delle regole tecniche proprie di una determinata arte o professione), che va a sua volta valutata con riguardo alla natura dell’attività e che, in rapporto alla natura dell’attività e che, in rapporto alla professione di medico chirurgo, implica scrupolosa attenzione ed adeguata preparazione professionale.

Punto delicato è il canone della perizia richiesta al libero professionista. Infatti è presente nel nostro ordinamento l’art. 2236 c.c. che prevede “Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore non risponde dei danni, se non in caso di dolo o colpa grave”. Lasciando perdere il problema del fatto doloso, che qui non rileva, l’elaborazione giurisprudenziale ha individuato l’ambito di applicazione di questa norma per i problemi di speciale difficoltà, limitatamente al canone di valutazione della perizia. In caso di negligenza od imprudenza (nella quale rientra anche il caso di chi affronta problematiche per le quali non è adeguatamente preparato – cfr. Cass. Civ. appena citata sopra) anche il fatto che si tratti di un problema di speciale difficoltà non rileva il fatto che l’imprudenza o la negligenza siano lievi. In caso di problemi di speciale difficoltà solo la lieve imperizia manda il responsabile esente da colpa.

La giurisprudenza ha anche chiarito in modo chiaro quale è l’onere della prova delle parti coinvolte in vicende del genere, spiegando quale è il significato dell’art. 2697 c.c. in questo tipo di fattispecie (cfr. Cass. civ. S.U. 13533/2001) spiegando che chi agisce per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno o per l’adempimento, deve dare solamente la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi alla mera allegazione della circostanza relativa all’inadempimento, ovvero all’inesatto adempimento, della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dall’onere della prova del fatto estintivo, costituito dall’avvenuto esatto adempimento. Pertanto, il paziente che agisce in giudizio deducendo l’inesatto inadempimento dell’obbligazione S., ha solamente l’onere di provare il contratto, oltre che il danno subito, anche con riguardo alle prestazioni sanitarie di difficile esecuzione. Resta invece sempre a carico del personale sanitario la prova che l’obbligazione sia stata eseguita in modo diligente. Resta a carico del sanitario anche la prova che della particolare difficoltà della prestazione.

Particolarmente problematica è la ripartizione dell’onere della prova circa la sussistenza del nesso di causalità fra i fatti colpevoli imputati al sanitario e alla struttura nella quale opera e il fatto.

(segue) L’onere della prova sulla sussistenza del nesso di causalità. Le ipotesi incerte e loro inquadramento nella fattispecie della perdita di chances.

Su questo punto, che come vedremo avrà un particolare rilievo in base ai risultati probatori raggiunti, si è recentemente espressa Cass. Civ. sez. 3 del 4 marzo 2004 n. 4400.

Si riportano, cercando di omettere i riferimenti alla situazione concreta in esame nella detta sentenza, le argomentazioni della Corte su questi temi che costituiscono il punto di arrivo dell’elaborazione giurisprudenziale in materia: riferisce la Corte che, posto che, in materia di responsabilità per colpa professionale, al criterio della certezza degli effetti della condotta si può sostituire, nella ricerca del nesso di causalità tra la condotta del professionista e l’evento dannoso, quello della probabilità di tali effetti e dell’idoneità della condotta a produrli, il rapporto causale sussiste anche quando l’opera del professionista, se correttamente e prontamente svolta, avrebbe avuto non già la certezza, bensì serie ed apprezzabili possibilità di successo (Cass. 6 febbraio 1998, n. 1286).

L’evoluzione giurisprudenziale in tema d’individuazione del nesso di causalità tra inadempimento della prestazione dedotta in  contratto e danno, pur con qualche non condivisibile ritorno alla “certezza morale” (Cass. 28 aprile 1994 n. 4044), o qualche esitazione tra “ragionevole certezza” e “ragionevole previsione” (Cass. 27 gennaio 1999 n. 722) evidenzia l’esigenza di superamento della concezione tradizionale: dal criterio della certezza degli effetti della condotta omessa a quello della probabilità di essi e dell’idoneità della stessa a produrli ove posta in essere; criterio per il quale il rapporto causale può e deve essere riconosciuto anche quando si possa fondatamente ritenere che l’adempimento dell’obbligazione, ove correttamente e tempestivamente intervenuto, avrebbe influito sulla situazione, connessa al rapporto, del creditore della prestazione in guisa che la realizzazione dell’interesse perseguito con il contratto si sarebbe presentata in termini non necessariamente d’assoluta certezza, ma anche solo di ragionevole probabilità, non essendo dato esprimere, in relazione ad un evento esterno già verificatosi, oppure ormai non più suscettibile di verificarsi, “certezze” di sorta, nemmeno di segno “morale”, ma solo semplici probabilità d’un eventuale diversa evoluzione della situazione stessa (criterio desumibile, con gli adattamenti logici resi necessari dalle diverse situazioni di fatto considerate, da Cass. 21 gennaio 2000 n. 632, Cass. 6 febbraio 1998 n. 1286, Cass. 18 aprile 1997 n. 3362, Cass. 5 giugno 1996 n. 5264, Cass. 11 novembre 1993 n. 11287).

In particolare e con riguardo alla sussistenza del nesso di causalità fra l’evento dannoso e la condotta colpevole (omissiva o commissiva) del medico, ove il ricorso alle nozioni di patologia medica e medicina legale non possa fornire un grado di certezza assoluta, la ricorrenza del suddetto rapporto di causalità non può essere esclusa in base al mero rilievo di margini di relatività, a fronte di un serio e ragionevole criterio di probabilità scientifica, specie qualora manchi la prova della preesistenza, concomitanza o sopravvivenza di altri fattori determinanti (Cass. 21 gennaio 2000 n. 632).

Il ricorso al giudizio di probabilità si presenta poi, come una necessità logica, poiché si tratta di accettare o respingere l’assunto, secondo cui il danno si è verificato, perché non è stato tenuto il comportamento atteso.

Qui si tratta di stabilire se il comportamento mancato avrebbe evitato il danno e giudizi di certezza non possono essere formulati già in linea di principio.

Ciò che va specificato, applicando anche in questa sede civile risarcitoria, i principi già espressi in sede penale (Cass. Pen. S.U. 11 settembre 2002 n. 30328, F.), tenuto conto che il nesso di causalità materiale va determinato a norma degli artt. 40 e 41 c.p., è che non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell’ipotesi dell’esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, così che, all’esito del ragionamento probatorio che abbia escluso l’esistenza di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva o in ogni caso colpevole del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo, con elevato grado di credibilità razionale o probabilità logica.

Tutto ciò opera nel caso in cui il soggetto creditore agisca per il risarcimento del danno costituito dal mancato raggiungimento del risultato sperato, allorché ciò sia conseguenza, sia pure in termini di probabilità concrete, dell’inadempimento della prestazione del medico, perché omessa, errata o ritardata.

Tuttavia in una situazione in cui è certo che il medico ha dato alla patologia sottopostagli una risposta errata o ritardata o in ogni caso inadeguata, è possibile affermare che, in presenza di fattori di rischio, detta carenza (che integra l’inadempimento della prestazione S.) aggrava la possibilità che l’evento negativo si produca.

Non è possibile affermare che l’evento si sarebbe o meno verificato, ma si può dire che il paziente ha perso, per effetto di detto inadempimento, delle chances, che statisticamente aveva, anche tenuto conto della particolare situazione concreta.

Com’è stato ormai da tempo evidenziato, tanto da autorevole dottrina quanto dalla giurisprudenza della Corte, la “chance”, o concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene o risultato, non è una mera aspettativa di fatto, ma un’entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile d’autonoma valutazione, onde la sua perdita, id est la perdita della possibilità consistente di conseguire il risultato utile del quale risulti provata la sussistenza, configura un danno concreto ed attuale (ex pluribus Cass., 10 novembre 1998 n. 11340, 15 marzo 1996 n. 2167, 19 dicembre 1985 n. 6506).

Siffatto danno, non meramente ipotetico o eventuale, bensì concreto ed attuale (perdita di una consistente possibilità di conseguire quel risultato), non va commisurato alla perdita del risultato, ma alla mera possibilità di conseguirlo.

Il principio è stato accolto in tema di risarcimento del danno subito da un lavoratore dipendente non ammesso dal suo datore di lavoro a partecipare ad una procedura concorsuale (ex multis Cass. 19 novembre 1997 n. 11522; cass. 10 novembre 1998 n. 11340, Cass. 22 aprile 1993 n. 4725).

Se il dipendente reclama come danno di avere perso i vantaggi inerenti alla posizione superiore, alla sua domanda si applica il modello già visto in tema di inadempimento di prestazione professionale intellettuale, per cui la domanda va rigettata se le probabilità di vittoria erano scarse, mentre se erano elevate, gli si liquida tutto  il danno che deriva dal non avere raggiunto la posizione superiore.

Se il dipendente reclama che è stato privato della possibilità di concorrere, si considera che il diritto leso è stato quello di partecipare e lo si risarcisce di una quota di danno commisurata alla possibilità di vittoria, che gli è stata riconosciuta (giurisprudenza costante, Cass. n. 11877 del 1998, Cass. 8470 del 1996).

Il modello di giudizio basato sul sacrificio delle possibilità (la perdita di chances) è accolto, negli stessi termini dalla giurisprudenza di altri ordinamenti, segnatamente quella francese, in tema di responsabilità dei medici.

Una volta configurata la chance nei termini suddetti, ragioni di coerenza del sistema inducono a ritenere condivisibile una tale soluzione in tema di responsabilità dei medici anche nel nostro ordinamento, ispirandosi, anzi, essa alla ripartizione del carico del danno tra creditore che si rinviene nel nostro ordinamento (ad esempio l’art. 1227 c.c.).

Sennonché, ciò che occorre porre in rilievo è che la domanda per perdita di chance è ontologicamente diversa dalla domanda di risarcimento del danno da mancato raggiungimento del risultato sperato.

Infatti, in questo secondo caso, la stessa collocazione logico giuridica dell’accertamento probabilistico attiene alla fase di individuazione del nesso causale, mentre nell’altro caso attiene al momento della determinazione del danno: in buona sostanza nel primo caso le chances substanziano il nesso causale, nel secondo caso sono l’oggetto della perdita e quindi del danno.

Né può ritenersi, come pure sostenuto da parte minoritaria della dottrina, che con l’espressione “perdita di una probabilità favorevole” non si fa riferimento ad un danno distinto da quello finale, ma si descrive solo una sequenza causale, nella quale la certezza del collegamento fatto evento si evince dalla sola probabilità del sue verificarsi, ed il risarcimento viene adeguato alla portata effettuale della condotta illecita sul danno finale. La ricostruzione più convincente, sulla quale si allinea la giurisprudenza dominante in materia di lavoro (Cass. 9 gennaio 2003 n. 123, Cass. .23 gennaio 2002 n. 734; Cass. n. 11340  del 1998), dissocia invece il danno come perdita delle possibilità dal danno per mancata realizzazione del risultato finale, introducendo così una distinta ed autonoma ipotesi di danno emergente, incidente su di un diverso bene giuridico, la possibilità del risultato appunto.

Ne consegue, nell’ambito della responsabilità dei medici, per prestazione errata o mancante, cui è conseguito il danno del mancato raggiungimento del risultato sperato, se è stato richiesto solo questo danno, non può il giudice esaminare ed eventualmente liquidare il danno da perdita di chances, che il creditore della prestazione S. aveva, neppure intendendo questa domanda come un minus rispetto a quella proposta, costituendo, invece domande diverse, non ricompresse l’una nell’altra.

A questo punto, sviscerati i canoni giuridici di valutazione del materiale probatorio raccolto, siamo pronti per affrontare il merito della questione.

Il merito della questione.

a)      I punti di critica all’operato del dott. P. svolti dagli attori.

Dalla lettura degli atti introduttivi degli attori (l’atto di citazione e la memoria di cui all’art. 183 comma 5 c.p.c.) si rileva che le doglianze svolte dagli attori sono 1) la non necessarietà dell’intervento alla carotide che si riverbera nella mancata correttezza dell’informazione resa al sig. M.; 2) una maldestra operatività in sede di esecuzione dell’intervento e in particolare l’utilizzo della vena in materiale sintetico anziché in materiale autologo del paziente (vena safena); 3) l’aver omesso al termine dell’intervento l’esecuzione di un controllo angiografico, angioscopico o doppler flussimetrico sulla qualità dell’intervento e più in generale l’omissione di controlli pressanti nel post operatorio; 4) tardività dell’intervento chirurgico successivo alla crisi delle ore 17,30; 5) la mancata rivascolarizzazione della carotide in sede di secondo intervento e la conseguente critica della soluzione adottata della legatura del moncone della stessa.

In questa sede è anche opportuno considerare la causa della possibile trombosi. Infatti a leggere gli atti di causa, non si evince che la trombosi che ha portato all’esito infausto venga imputata ad un errore tecnico di esecuzione del primo intervento. Infatti come poi si evince dalla testimonianza del dott. Z. la trombosi è una delle più probabili complicanze post operatorie derivanti dall’intervento in esame. Il punto è stato anche brevemente trattato in sede di C.T.U. dove, a pag. 36, viene riportato una dichiarazione del C.T.P. di parte convenuta che riferisce come ci possano essere il 5 % di trombosi asintomatiche entro un mese dall’intervento (vedi anche dopo in sede di ultima discussione con i C.T.P. riportata dai C.T.U.).

Sul punto si devono tenere fermo queste considerazioni e sottolineare fin da adesso come manchi un rapporto di causa effetto tra eventuali errori medici e la trombosi occorsa al sig. M.. La trombosi è invece inquadrabile tra quelle patologie che rischia comunque una persona che viene sottoposta a questo tipo di interventi..

Conseguentemente la disamina che segue è particolarmente indirizzata prima a verificare se fosse opportuno che al sig. M. venisse fatto correre il rischio di tale evento e poi se si è fatto di tutto per evidenziare precocemente l’insorgenza del problema e una volta scopertolo, se si è intervenuti prontamente ed adeguatamente.

b)      La non inquadrabilità dell’intervento in questione tra quelli che prevedono problemi tecnici di speciale difficoltà di cui all’art. 2236 c.c.

 Su questa questione si deve osservare che l’applicazione dell’art. 2236 c.c. è da escludere con decisione. Infatti dal materiale probatorio (in particolare dalla deposizione del teste dott. C. Z. (udienza del 15 ottobre 2002 pag. 4 e ss.) si evince che la TEA a cui è stato sottoposto il sig. M. è una chirurgia corrente, standardizzata con alcune variabili tecniche. Il rischio di esito infausto (come quello in cui è incorso il sig. M.) è nell’ordine dello 0,5% al 5 %. In particolare per il gruppo chirurgico di I., al momento dell’intervento del sig. M. vi era una esperienza decennale con oltre trecento operazioni seguite con pochissimi casi di esito infausto.

A ciò si devono aggiungere i dati relativi all’operatività del dott. P. per interventi del genere prima di quello per cui è processo e ritrovabili a pag. 33 della relazione di C.T.U.: il dott. P. aveva 184 interventi all’attivo e di questi interventi solo quattro hanno avuto un esito infausto e cioè tre decessi ed un emiparesi come quella del sig. M., che è stata pertanto la seconda emiparesi nella statistica personale del convenuto.

Ciò è assolutamente sufficiente per dire che l’operazione in questione non presentava in origine problemi tecnici di particolare complessità sia in senso assoluto che in riferimento al gruppo chirurgico di I..

c)      La necessarietà dell’intervento e la sussistenza del consenso informato.

Su questo punto è sempre molto rilevate la deposizione del dott. Z., chirurgo vascolare. Questi a pag. 4 del verbale prima detto riferisce che aveva anche lui guardato la documentazione clinica del caso del sig. M. quando questi si recò da lui per un giudizio clinico. Il teste ha riferito testualmente quanto segue: “…io ho scritto che in base a quello che veniva descritto dalla angiografia e nelle lastre a mio parere occorreva correggere sia la situazione carotidea che periferica . Occorreva correggere in tempo diversi, prima andava trattata la carotide: anche quoad vitam, perché la trombosi acuta della carotide può esitare in un ictus o nella morte, in questo momento non saprei dire probabilità e tempi, dovrei consultare la letteratura. Non ricordo se scrissi due righe, credo di avere scritto due righe dove attestavo che avevo visitato il paziente ed esprimevo il parere favorevole alla tromboendoarteriectomia (TEA) carotidea. Io ho visto il paziente e la documentazione solo quella volta. Penso che il paziente avesse ben compreso quello che gli dicevo…”.

Questa testimonianza è anche importante poiché attesta in modo incontrovertibile come il sig. M. si fosse ben informato sulla necessità dell’intervento e si aggiunge alla testimonianza del dott. N. che ha raccolto quale medico di reparto il consenso all’operazione (verbale del 14 novembre 2002 pag. 1). Questi descrive come il paziente fosse venuto a colloquio con lui come momento conclusivo di una serie di colloqui avuti essenzialmente con il dott. P.. Il teste ha riferito che il M. gli disse di avere parlato a  lungo con il priM. e con il dott. O. suo assistente e che aveva sentito anche il parere di altri medici. Dice il dott. N. che il sig. M. era perfettamente al corrente dei rischi dell’intervento e che era convinto della necessità di intervenire. Dunque tale deposizione conferma le modalità di acquisizione del consenso evidenziato dal modulo sottoscritto dal sig. M. di cui agli atti processuali.

La testimonianza del dott. Z. è anche importante perché evidenzia come pure altro medico chirurgo formatosi professionalmente in I., ma in quel momento al di fuori di quell’ambiente professionale, esercitando la sua opera in Pesaro, aveva ravvisato la necessità dell’intervento.

Ciò conferma le conclusioni sul punto dei Consulenti d’Ufficio che anche tenendo conto del dissenso dei consulenti di parte attrice e delle indicazioni del consulente tecnico del dott. P.,  che indica la stenosi di cui era affetta la carotide del sig. M. come “al limite dell’indicazione chirurgica” concludono come “…la proposta terapeutica formulata dal dott. P. corrispondesse ad un orientamento ampiamente diffuso nell’ambito della chirurgia vascolare all’epoca dei fatti” (pag. 40 della relazione di C.T.U.). Il fatto che il